martedì 16 dicembre 2008

la povertà

Come studiosa della povertà mi viene chiesto spesso di “dare i numeri”, di riuscire a calcolare con esattezza quanti sono i poveri a Napoli, piuttosto che di aiutare a capire chi siano, dove vivano, come sopravvivano e a costo di quali difficoltà e sofferenze, spesso anche psicologiche. Per lo più non mi sottraggo a questa richiesta, ma credo che sia importante, per programmare qualsiasi intervento, capire anche di che cosa stiamo parlando, di tradurre i numeri in soggetti in carne e ossa. Ciò serve anche – e lo dico senza alcuna ironia – a non spaventarsi troppo: è certamente facile attuare una politica di reddito minimo a Bolzano, dove per contare le domande a volta bastano le dita delle mani, piuttosto che a Napoli dove le richieste (a netto delle sovrastimate “frodi”) superano sempre le decina di migliaia. Ma partiamo dai numeri, guardando a diversi indicatori (consumi, reddito e difficoltà nel soddisfare standard minimi). Sulla base dei dati diffusi annualmente dall’Istat negli ultimi cinque anni l’incidenza della povertà relativa a Napoli non è scesa mai al di sotto del 20%, con punte stimabili intorno al 30-35% in alcuni quartieri. Una famiglia campana su tre è molto povera (in quanto ricade nel quinto più basso della distribuzione dei redditi) e una su due è povera o molto povera (cioè si trova nella parte più bassa della distribuzione dei redditi). Infine, se si considerano alcuni indicatori ormai ampiamente usati a livello europeo, si osserva come, rispetto alle principali città italiane, Napoli presenta la più alta incidenza di disagio alimentare, difficoltà di sostenere spese per la casa (incluso il pagamento delle bollette) e di coprire il costo delle spese mediche.
A parte le stime ufficiali si può dire che non ci vuole la zingara per indovinare la ventura. All’ aggravamento delle forme più tradizionali di povertà familiare si aggiunge un aumento preoccupante del numero di persone che vivono per strada andando incontro, come è accaduto soltanto una settimana fa, alla morte per denutrizione e assideramento. Quest’ ultima area –l’area della marginalità e della povertà estrema – si è arricchita di recente di nuovi soggetti, come donne immigrate arrivate a Napoli come “badanti” che, in seguito alla morte della persona anziana, si trovano di colpo senza lavoro e senza possibilità di soggiorno regolare, donne anziane sole che, ciabatte ai piedi, si vedono di frequente frugare nell’immondizia in cerca di qualche oggetto o, chissà, di qualche avanzo di cibo, e giovani provenienti dai paesi dell’ex blocco sovietico occupati in lavori ultra-precari (come il lavaggio dei vetri o dei fanali delle auto) con problemi di alcolismo.
Le esperienze di intervento per contrastare la povertà a Napoli sono state del tutto insufficienti rispetto alle dimensioni del fenomeno e alla sua composizione. Sia per difficoltà oggettive sia per la scarsa volontà gli interventi hanno avuto una portata limitata nel tempo e nella entità dei benefici.
Rispetto a ciò a poco serve la solidarietà familiare. Essa è stata fino ad oggi senza dubbio un importante freno alle derive individuali, ma con il venire meno delle condizioni che hanno reso possibile in passato l’esercizio della solidarietà (come la presenza di almeno un reddito stabile in famiglia o l’ apporto di spezzoni di redditi da lavoro irregolare) si assiste oggi ad un sovraccarico di richieste che la famiglia non è più in grado di sostenere. E purtroppo, sempre più di frequente, registro nella mia esperienza di ricerca il ruolo del “welfare della camorra”: le famiglie povere che, trovandosi con le spalle al muro, accettano questa forma di aiuto imboccano un percorso senza possibilità di ritorno.
E’ tutta qui la questione morale a Napoli. Nella sproporzione tra obiettivi che un governo di sinistra dovrebbe porsi e realtà concreta. E tale sproporzione è tanto più grave quando si tratta di garantire risorse minime per la sopravvivenza. Certo non è una soluzione il reddito di cittadinanza (in realtà, altro che cittadinanza!) attribuito solo a poco più del 10% degli aventi diritto (e che non si vorrebbe neppure rifinanziare). Ma, nelle scelte di bilancio, questi temi non sono prioritari. E il dibattito politico si immiserisce nelle previsioni della capacità di resistere nell’occupazione dei posti di potere. Quando, in occasione delle ultime elezioni, qualcuno ha tentato di cambiare registro, è stato circondato di gelo, a volte di sprezzante ironia. Poi i fatti hanno drammaticamente smentito certezze autoreferenziali. Perciò, partendo dai nostri svariati luoghi di lavoro, dalla esperienze di volontariato laico e cattolico, senza preclusioni ideologiche (cercando soltanto di distinguere le persone realmente motivate da quelle in cerca di celebrità) abbiamo cercato di proporre un percorso nuovo. Abbiamo pensato che stavamo diventando una sorta di riserva indiana cittadina e abbiamo cominciato a lanciare segnali di fumo. Qualcuno asserragliato in altre riserve ci ha risposto. Contiamo di non subire la sorte dei nativi americani. Per questo, ci incontreremo nell’assemblea pubblica che si terrà oggi, nella Galleria Toledo, alle quattro e trenta del pomeriggio.
Enrica Morlicchio (Università di Napoli Federico II)

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